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Conosci davvero il significato dell’espressione “politically correct”?

Te lo chiedo perché ho notato, stando a ciò che leggo ogni giorno sui social, che le persone che dimostrano di conoscerlo davvero sono poche. Infatti moltissime spesso utilizzano l’espressione “politically correct” in modo sbagliato. Sì, anche nella variante opposta “politically uncorrect” e nelle traduzioni letterali in italiano.

In che senso sbagliato?

L’errore più diffuso che noto è l’uso di questa espressione come sinonimo di “buonista”, “moralista” o addirittura di “conformista”.

Ti faccio un esempio: quando si trovano a criticare un modo di comunicare (o di agire) a loro giudizio “perbenista”, “buonista”, “moralista”, “ipocrita”, “allineato al sistema”, o anche “gentile e rispettoso”, li inquadrano come esempi di “politically correct” quando invece dovrebbero parlare solo di “eccesso di educazione”, di “ipocrisia”, di “buonismo”, ovvero utilizzare termini precisi.

Che poi, considerando l’abbondanza di parole di cui la nostra bella lingua per fortuna dispone, non sarebbe un compito neanche difficile.

Ce l’hai col stucchevole moralismo, col finto buonismo? Bene, parla di stucchevole moralismo e finto buonismo. Sai che il “politically correct” è un’altra cosa? Cosa c’entra?

Eppure conoscerne il vero significato non è difficile: non viviamo nell’epoca pre-internet quando per informarsi bisognava uscire di casa e visitare una biblioteca, sempre che fosse ben fornita. Oggi per informarsi basta un qualsiasi dizionario online e leggere la definizione delle parole o, meglio ancora, l’etimologia cioè la loro origine.

Ma non ti preoccupare perché in questo articolo ho provveduto io a fare quelle ricerche e condensare entrambe le cose. Ti basterà semplicemente continuare a leggere questo articolo.

“Politically correct” sul Treccani

Banalmente, una dei maggiori dizionari italiani lo definisce in questo modo (definizione copiata da questo link):

L’espressione angloamericana politically correct (in ital. politicamente corretto) designa un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale cioè si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone. Secondo tale orientamento, le opinioni che si esprimono devono apparire esenti, nella forma linguistica e nella sostanza, da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, di genere, di età, di orientamento sessuale o relativi a disabilità fisiche o psichiche della persona.

Analizziamo insieme la definizione.

Treccani parla CHIARAMENTE di un’espressione che designa un orientamento ideologico e culturale legato ad un determinato contesto, nella fattispecie quello di categorie di persone specifiche.

E nella seconda parte della definizione indica altrettanto CHIARAMENTE a quali categorie di persone ci si riferisce: tutte le persone che potrebbero essere discriminate per motivi di razza, etnia, religione, genere, età, orientamento sessuale, disabilità fisica o psichica. Parliamo cioè di chi si trova in uno status (includendo la religione se la intendiamo come “incipit familiare”) che non ha sicuramente scelto.

Chiaro, no?

Magari a questo punto mi dirai “Leo, ok… hai ragione. Ma che vuoi che sia confondere politically correct con educazione o conformismo? Non starai esagerando? Perché farci questo articolo/paternale/pippone rompibeep?”.

Se sottovaluti la questione proporti la sola definizione non basta: dobbiamo andare più a fondo indagando anche le origini di questa espressione. Continua a seguirmi come fossi Alberto Angela mentre parlo di Pompei. Ma prima una cosa…

A parziale discolpa dei faciloni del politically correct va detto, ed anche questa cosa viene spesso ignorata dai più, che politically correct è un’espressione confusa da molti probabilmente anche per colpa di una traduzione semantica che non coincide  con quella letterale.

Da buon inglesomane ti dico che “politically correct”, come scrivevo all’inizio, viene infatti tradotto letteralmente “politicamente corretto”, ma il significato non è affatto “politicamente corretto” perché non riguarda la politica in senso generale ma solo quella in relazione al tema dei diritti di specifiche minoranze. Per capirci “politically correct” è ciò che i prof d’inglese chiamano “false friend”, ovvero una di quelle espressioni o termini che inducono una traduzione sbagliata. Un po’ come la parola inglese “camera” che in italiano non si traduce come “stanza” ma “telecamera”!

Ora sì che possiamo calarci nelle catacombe…

Le origini di “politically correct”

L’espressione nasce in USA negli anni ’30 negli ambienti di sinistra quando si inizia a denunciare l’uso diffuso da parte della popolazione anglosassone di espressioni come “nigger” poiché (e direi proprio!) offensive. Infatti quel vocabolo a quei tempi richiamava il periodo dello schiavismo, quindi riferirsi a qualcuno con quel termine era come dargli dello schiavo.

Successivamente, durante gli anni ’60 ed i suoi “moti liberali”, il termine “politically correct” assume dimensioni ancor maggiori divenendo, come si legge sempre nella pagina Treccani, una “corrente di opinione basata sul riconoscimento dei diritti delle culture e mirante a sradicare dalle consuetudini linguistiche usi ritenuti offensivi nei confronti di qualsiasi minoranza”.

A partire dagli anni ’80 si inizia ad utilizzarlo, ed aggiungerei PURTROPPO, in modo più generale in contesti più ampi, ma sempre legandosi a minoranze ed arrivando ai giorni nostri questa generalizzazione si fa ancora più spinta portando molti ad usarla un po’ per tutto, un po’ come il prezzemolo in cucina.

Ma attenzione (e per favore stampatelo in testa): la definizione è rimasta la stessa, semmai il guazzabuglio è da ricercarsi nelle persone che l’hanno tirata in ballo in modo  fuori luogo, per condannare moralità, conformismo, allineamento al sistema e bla bla bla.

Ma, al di là del significato intrinseco che, come ti ho fatto notare sintetizzandoti la sua storia (banalizzazioni incluse), vediamo di cosa si tratta.

Cos’è davvero il “politically correct”?

Il politically correct è semplicemente un insieme di regole etiche di comunicazione e di comportamento.

Personalmente, anche perché mi aiuta a spiegarlo, mi piace definirlo uno “strumento”. Perché  il politically correct è uno strumento?

Il motivo è che, se ci pensi, uno strumento per definizione è un mezzo per compiere una o più azioni (in tal caso un’azione di difesa o di tutela sociale nei confronti di minoranze che sono normalmente discriminate). Inoltre in quanto strumento non è mai buono o cattivo, semmai ad essere buono o cattivo è solo l’uso che se ne fa.

Tra gli usi cattivi dell’espressione “politically correct” c’è appunto quello di ignorarne il vero significato rendendolo sinonimo di concetti differenti e facendone di fatto un “nemico” che viene spesso accusato ingiustamente di volere limitare o addirittura togliere la libertà di espressione alle persone.

Insomma, stando alla definizione di politically correct che abbiamo visto… una grossa grassa bugia!

Quando parliamo di polically correct infatti parliamo di un insieme di regole etiche ad uso personale, aziendale o istituzionale, non di certo di leggi che, se violate, porterebbero ad una pena. Non parliamo di obbligo o censura, ma di consapevolezza ed autoregolamentazione. Parliamo di fare più attenzione alle parole, di curare il più possibile ciò che si dice e di come lo si dice. E parliamo di comunicazione inclusiva.

Tra l’altro vivendo in una nazione libera (e non dirmi che sei di Pechino) la comunicazione, a meno di diffamazione, non ha mai conseguenze legali. E nessuno ha mai obbligato qualcun altro a farne uso. Questo dovrebbe essere tenuto a mente soprattutto da chi attacca il politically correct parlando di libertà d’espressione, ma nessuna libertà di espressione è minacciata dal politically correct. Anzi osteggiarla può suonare esso stesso come un tentativo di censura. 

Come e perché il suo significato viene “storpiato” (anche da chi non ti aspetti)

Per onore di cronaca (anche perché come avrai capito non sono né camerata né compagno) va sottolineato che le suddette “storpiature” del significato originario di politically correct non provengono solo dalle “destre” ma anche da certe “sinistre” che all’estremo opposto a volte sollecitano il linguaggio inclusivo in contesti spesso palesemente inopportuni o esagerati.

Un caso tra i tanti, giusto per inquadrare l’antifona.

Nel 2002 si è iniziato a suggerire, generando un lungo dibattito, di applicare il politically correct alla nomenclatura informatica dei termini “master” e “slave” in quanto “riferimento alla schiavitù”. Come si legge in questa pagina Wikipedia:

[…]In seguito a questo dibattito la terminologia master/slave è stata sostituita da Django e da Drupal (nel 2014), da Redis (nel 2017), da Python (nel 2018). Nel 2020, in seguito all’ondata internazionale di proteste per la morte di George Floyd, realtà importanti della tecnologia IT hanno dichiarato di voler sostituire questa terminologia. Fra queste Android, Google Chrome, Curl, GitHub, Microsoft e Twitter.[…]

Casi simili ce ne sono tanti ed a questi si è aggiunta in tempi più recenti la follia della “cancel culture”, quella scuola di pensiero che sembrerebbe voler eliminare tracce del passato, ad esempio censurando opere artistiche di altre epoche, in nome di un’applicazione eccessivamente rigorosa del politically correct.

Ogni tanto balzano agli onori della cronaca casi simili, sempre più strambi e fuori luogo, che diventano occasioni perfette per dare la colpa al politically correct (anche se non è propriamente colpa sua ma del modo e contesto in cui lo si applica!). Ecco, a mio parere (ma è opinione diffusissima e non solo negli ambienti di destra!) certi “usi folli” del politically correct andrebbero effettivamente evitati anche perché anziché risolvere l’ingiustizia sociale a volte la fomentano.

Infatti un conto è rimanere fedeli alla definizione originale, tipicamente applicandolo per denunciare termini offensivi come “frocio” o “negro” al posto dei politically correct “gay” e “nero” (come non ricordare – a proposito ne ho parlato tempo fa in questo articolo – il monologo in TV dei comici Pio e Amedeo in cui denunciano l’ingiustizia di non poter pronunciare, secondo loro, liberamente quelle parole), altro conto è farne motivo di pretestuosa polemica come nel caso “master/slave” in cui, in realtà, non esiste una vera “parte offesa”, in cui la questione di principio non trova vera applicazione.

Tuttavia fai sempre molta attenzione: spesso l’intento nel veicolare queste polemiche non è politico ma economico considerata la viralità che articoli volutamente controversi e “click bait” come questi generano sui social. Ed a questo può aggiungersi anche l’interesse da parte di aziende di attenzionare questioni sociali per scopi sempre economici attraverso il cosiddetto, e super ipocrita, fenomeno del “social washing”.

Questo ovviamente, e ti chiedo ancora una volta di fare attenzione (sì lo so che sono prolisso, insultami pure se vuoi, basta che non citi ad minchiam il politically correct), NON significa che tutte le aziende o gli individui che si preoccupano del linguaggio inclusivo e che lottano per le ingiustizie, anche sul piano comunicativo, lo facciano in modo falso ed ipocrita, ma che l’uso che alcuni fanno del politically correct è purtroppo falso ed ipocrita.

Ed in effetti il punto è questo: come si fa ad usare “politically correct” come sinonimo di “ipocrita” senza essere certi che alle belle parole non si facciano seguire pessime azioni? Come si fa a giudicare male qualcuno per aver detto qualcosa di “buono” senza dimostrare che di nascosto si comporta in modo opposto cioè “cattivo”?

Nessuno ovviamente dice che le parole contino mentre le azioni no, anzi da comunicatore che ha a cuore i temi sociali ma anche che ci tiene a concretezza e coerenza tra il dire e il fare dico che denunciare la falsità e l’ipocrisia è più che giusto, e se lo fai hai tutta la mia stima. Ma se lo fai non sei “politically uncorrect”, sei semplicemente una persona libera, al massimo puoi definirti un anticonformista e uno senza peli sulla lingua. Punto!

Però, e qui arriva il momento romantico (anche se potrei citarti numerosi studi di psicologia e sociologia), le parole, per quanto meno importanti delle azioni, contano tantissimo. Le parole hanno un impatto importantissimo sulle persone che ci leggono o ci ascoltano, dentro e fuori i social, per questo andrebbero ponderate per lo meno in certi contesti.

Per questo mostrarsi buoni, difendendo ed applicando per quanto possibile il linguaggio inclusivo dettato dal politically correct non è per forza un male, anzi salvo ipocrisie direi che soprattutto quando il buon esempio riesce ad essere “contagioso” è sempre un gran bene.

Concludendo

Non voglio appesantire ulteriormente questo già pesantissimo super-pippone (lo so, ma l’argomento era serio!). Concludo solo con un’utopicissima speranza…

Spero tanto che da ora in avanti, se avrai letto e compreso questo mio articolo, ogni volta che esprimerai la tua legittima libertà d’espressione denunciando il “buonismo”, l'”ipocrisia”, la “falsa moralità”, l’eccessiva (nel senso di stucchevole, falsa e bigotta) “educazione” ed il “conformismo” nominerai esattamente le parole che scritto (o simili) senza utilizzare l’espressione “politically correct” se non in contesti che riguardano i diritti delle minoranze che hai letto nella definizione originale.

Perché il “politically correct” è un concetto positivo, solidale ed utile, uno strumento di difesa e tutela di chi spesso non ha altro modo di difendersi e tutelarsi se non con le parole.

E massacrarne il vero significato significa compiere l’ingiustizia di disarmare chi ne ha bisogno.


Leo Cascio

Leo Cascio

Sono brand builder, creator, consulente, formatore e divulgatore di web marketing. Autore del libro "Personal Branding sui Social" (link Amazon).
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