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“Sono sempre me stesso, fare personal branding non mi serve”.
Ecco una delle classiche obiezioni che ricevo quando suggerisco a qualche imprenditore o lavoratore autonomo di metterci la faccia con maggiore professionalità nella comunicazione.
Già, purtroppo spesso devo battermi con diversi pregiudizi sul personal branding tra cui quello secondo cui per comunicare bene basti mostrarsi “autentici”, col pensiero secondo cui l’autenticità, che è in effetti una dote molto apprezzata, basti.
Ma fare personal branding, proprio come non significa negare la propria natura indossando la maschera di un personaggio, allo stesso modo non riguarda solo la rivelazione della propria autenticità, ma molto di più. Cioè ciò a cui sfugge a molti è che il concetto di “essere se stessi” in comunicazione non è né l’antitesi né l’assenza del personal branding, ma solo una base. Una base certamente importante, ma non sufficiente.
Oltre ad essere se stessi è necessario infatti attivare una sorta di “filtro” che porti da un canto a nascondere aspetti e contenuti nocivi in termini di focus e di reputazione, e da un altro canto ad evidenziare, valorizzandoli, quegli aspetti e contenuti che possano essere vincenti.
Ma attenzione: questo filtro non è una censura che nasconde ciò che pensiamo ma un razionale auto-controllo della comunicazione personale.
L’istinto, infatti, ci porta ad esprimere la nostra autenticità, e questo è un bene, tuttavia quando l’istinto non è sottomesso alla ragione, l’errore di comunicazione è dietro l’angolo.
Premesso che nessuno è perfetto ed anche anche il personal brand più bello ed efficace del mondo non ne è immune, dovremmo sforzarci di attivare e far funzionare questo filtro. Un filtro che non può esistere senza una preventiva analisi, sia di natura psicologica che di marketing.
Perché il personal branding è un filtro che un po’ blocca, un po’ trasforma ed un po’ lascia passare il nostro “noi” all’esterno in modo intelligente e controllato senza mai snaturarci.
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