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Il grande psichiatra Car Gustav Jung sosteneva che il motivo per cui la maggior parte delle persone giudica è perché pensare è un’attività difficile che richiede un grande dispendio d’energia.

In effetti cos’è il “giudizio sommario”, quello che ci porta ad etichettare cose e persone, se non un modo sbrigativo per prendere decisioni? E come tale potenzialmente fallace?

Personalmente credo, e lo credeva anche Jung in realtà, che giudicare non sia sempre un errore se il giudizio viene però ben ponderato. Credo che la frase molto cristiana “non giudicare” sia vera ma che debba essere anche presa molto con le pinze (leggasi: con realismo) in quanto un mondo in cui non giudichiamo mai, cioè in cui non etichettiamo nulla, sarebbe un mondo impossibile da vivere.

Sarebbe un mondo, oltre allo sforzo cognitivo sovrumano a cui saremmo esposti 24h, che ci impedirebbe di riunirci in gruppi.

L’uomo infatti è per sua natura un essere sociale che tende a riunirsi in tribù di membri con affinità di carattere valoriale e morale. Le amicizie e le famiglie, ma sul lavoro le aziende ed i brand, nascono sempre validando questa condizione.

Brand, giudizio ed etichette

In particolare il concetto di brand è l’emblema del giudizio in quanto vive proprio di etichette.

Il brand positioning funziona proprio come un’etichetta con su scritta una categoria o un concetto da appiccicare idealmente sulla fronte del pubblico. Per esempio il mio auspicio mentre mi leggi è che tu possa etichettarmi come “quello del personal branding”. E non c’è nulla di male in questo purché la mia promessa sia esaudita altrimenti si configurerebbe un tentativo di manipolazione.

Ed è proprio questo il punto: il problema non è il giudizio ma COME si giudica.

Intanto credo che dovremmo giudicare, nel senso di farci un’idea sommaria, più dei fatti piuttosto che delle persone. Ma se proprio vogliamo etichettare una persona (anche se in realtà non si tratta di una “vera scelta”: è il nostro cervello che tende a farlo per noi senza accorgercene) facciamolo con consapevolezza ovvero plasmando il nostro istinto in modo da portare la scelta sul piano razionale, ovvero facendo in modo che a deciderlo sia la nostra ragione.

Ma il problema è che il nostro istinto, come dimostrano molti studi sul cervello, è predominante nella costruzione della “prima impressione” ed agisce in modo inconscio, incontrollato. Come spiega il neurologo Donald Calne la ragione invece subentra dopo.

Ma è quest’ultima che dovrebbe suffragare (o meno) il nostro istinto (ovvero la nostra neurocezione, di cui parlo bene qui, che non andrebbe comunque ignorata).

Che ne pensi?

Sperando che il mio articolo abbia stimolato in te una riflessione, ti chiedo: come ti rapporti col concetto di giudizio?

E soprattutto: da personal brand che consapevolezza hai sul ruolo del “giudizio saggio” (chiamiamolo così!) nella formazione e nella vita della tua community?

Scrivimi qui, senza impegno ovviamente, per confrontarti con me su questo tema o semplicemente per aggiungere valore alla discussione. Oppure condividi questo post sui tuoi social taggandomi, se ti fa piacere.


Leo Cascio

Leo Cascio

Sono brand builder, creator, consulente, formatore e divulgatore di web marketing. Autore del libro "Personal Branding sui Social" (link Amazon).
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