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Conosci il brand di moda Abercrombie & Fitch? È una grossa catena di abbigliamento che negli anni ’90 divenne leader in USA per una clientela molto particolare: quello dei giovani “belli e bianchi”.
Sì, lo so che è folle ma per molti anni, grazie ad una comunicazione con testimonial molto sensuali e rigorosamente bianchi, questa azienda macinò successi e vendite finché nel nuovo secolo, dopo che iniziarono a produrre e vendere t-shirt con vignette razziste, fu investita da aspre accuse che di fatto ne segnarono un lento ma inesorabile declino.
Quello di Abercrombie & Fitch è un caso emblematico di brand il cui posizionamento si fondò di fatto su una “esclusività” legata a razza ed aspetto fisico. Per capire il “livello”, ad esempio tutti i commessi dei suoi store venivano assunti solo se avevano determinati canoni estetici e razziali.
Questa storia, che viene raccontata nel documentario Netflix “White Hot” (se puoi vedilo!), secondo me spiega molto bene la differenza non sempre chiara tra “brand inclusivi” e “brand esclusivi”.
Cosa significa esclusività di un brand
È noto che l’esclusività, cioè il fatto che un brand possa rivolgersi ad un gruppo di persone ben preciso, sia un fattore di branding molto importante. Tranne rare eccezioni (brand generalisti) in effetti un brand è tale se risponde ai bisogni di una categoria specifica di persone, e questo è normale oltre che assolutamente etico. Tipicamente si fa leva sul bisogno di appartenenza in un gruppo, cosa che crea e rinforza il legame tra cliente ed azienda.
E funziona. D’altronde, come recitava un vecchio spot, per quasi tutti i brand vale il detto “per molti, ma non è per tutti”.
Cosa significa inclusività di un brand
È meno noto invece il significato di inclusività che spesso viene confuso col “dover piacere per forza a tutti” come fosse l’opposto di esclusività (chissà, forse il marketing team di Abercrombie&Fitch avrà pensato una cosa del genere), ma non è così.
Inclusività significa “non offendere” (non è necessariamente il contrario di “piacere a”) determinate categorie accomunate dalla stessa razza, etnia, fisionomia, salute, genere, sesso, ecc…
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Insomma questa storia dimostra che un brand può essere sia esclusivo che inclusivo. E che, a mio modo di vedere, se l’esclusività può essere un optional, l’inclusività dovrebbe essere sempre “di serie” in qualsiasi strategia di branding.
E tu che ne pensi?