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In occasione della recente festività di San Valentino due campagne social molto “particolari” di altrettante attività locali italiane hanno fortemente stimolato il dibattito degli addetti ai lavori del comparto comunicazione e marketing digitale. Me incluso.

Se non hai idea di cosa stia parlando e vuoi sapere cosa ne penso dai un’occhiata ai miei due Facebook post che ho qui incorporato, altrimenti saltali pure e continua a leggere.

Passato il 14 febbraio e stemperato un po’ il disgusto, mi sono chiesto se queste due campagne avessero in comune soltanto un messaggio sbagliato/dannoso o se ci fosse altro su cui riflettere.

Allora nell’ottica di scriverci queste righe, con lo scopo di aiutare gli imprenditori a prevenire simili errori, mi sono chiesto quale fosse la scintilla che ha spinto queste due piccole aziende a distruggere, ovviamente involontariamente, la propria brand reputation.

Non mi è stato difficile trovare la risposta.

La solita, infantile “fame di attenzione”

Sia il post del “fiorista che bullizza le donne non magre” che quello del “gioielliere che giustifica l’infedeltà maschile”, oltre a condividere un messaggio disgustoso, nascono entrambi dalla volontà di chi li ha partoriti di creare un contenuto virale, in grado cioè di farsi attenzionare fortemente al punto da essere condiviso spontaneamente.

In questi casi buona parte della sconfitta del brand nasce cioè proprio dalla cieca volontà, consapevole o meno poco importa, di suscitare velocemente attenzione/clamore nel pubblico.

In effetti sono riusciti in questo intento: grazie alle molte condivisioni ottenute hanno ricevuto tanta “visibilità gratuita”.

L’altro lato della medaglia è stato però pagarne un prezzo altissimo in termini di brand reputation. E ciò malgrado la repentina cancellazione dei post a seguito dell’ovvia “shit storm” piovutagli addosso. No, la foto che descrive il significato di shit storm non la metterò.

Da qui nasce spontanea una serie di domande che secondo me qualsiasi brand piccolo o grande dovrebbe porsi prima di mettere mano ai social:

  • Vale la pena lanciare campagne virali in modo improvvisato o basandosi sulla provocazione?
  • Vale la pena attirare l’attenzione puntando sul solito “nel bene o nel male basta che se ne parli”?
  • Vale la pena fingersi “social media strategist” o assumere qualcuno che finge di esserlo?

La risposta è ovviamente sempre NO.

Quando la reputazione di un brand viene distrutta per colpa di un singolo ma grave errore è poi difficile recuperarla (anche se chiedere subito scusa senza aggrapparsi a fantomatiche incomprensioni sarebbe la cosa migliore da fare per metterci una grossa pezza di sopra).

Un brand senza risorse non può permettersi di comunicare in modo virale

Sì perché a meno di “enormi botte di culo” (il “marketing della speranza” rarissime volte funziona), strutturare una campagna che diventi virale mantenendosi coerente con i valori positivi del proprio brand, riuscire cioè a sfornare un messaggio potente ma allo stesso tempo positivo, ha dei costi potenzialmente alti.

I piccoli brand posso comunque comunicare bene con poche risorse?

Le mie premesse sembrerebbero dire di no, ed invece la mia risposta è SI.

I brand possono, anzi devono, comunicare bene con i “micro contenuti”: una serie di post efficacemente studiati che servano con un linguaggio semplice a rimarcare la brand identity. Magari con un pizzico di ironia ed originalità, per quanto possibile, ma senza strafare.

Insomma, per comunicare non serve affatto rincorrere la “viralità a tutti i costi”.

Per comunicare bene basterebbe concentrarsi sul “come” piuttosto che sul “dove” raccontandosi con un po’ di creatività, persino per assurdo con una semplicità al limite della banalità, purché coerentemente con chi si è e si vuole essere.

Scegli di comunicare senza offendere

Neanche a farlo apposta mi è passato davanti anche questo post di Giovanni Rana, il re dei tortellini.

https://www.facebook.com/giovannirana/videos/885057498926388/

Casca a fagiolo perché Rana è un grande brand, di quelli che potrebbero eccome strutturare campagne viralissime frutto di lunghi, competenti e costosissimi brain storming, eppure ha scelto molto saggiamente di comunicare proprio con i micro contenuti. In modo sobrio e innocuo, senza strafare, senza attaccare niente e nessuno (no, non si sta inimicando i gioiellieri visto che non sono suoi competitor!), ma ricordando costantemente e coerentemente i propri valori. Anche per San Valentino.

Ciò non significa, ovviamente, che i piccoli brand possano “fare tutto in casa”, affatto: anche in questo caso una supervisione professionale “non dal cugino” sarebbe necessaria per non correre il rischio di danneggiarsi o non essere efficaci.

Per concludere, la soluzione che propongo ai piccoli brand per comunicare bene sui social risiede proprio nel seguire questa strada.

È la più lunga, lo so, ma anche la più saggia perché, come Giovanni Rana dimostra, alla lunga funziona molto meglio di qualsiasi post virale.


Leo Cascio

Leo Cascio

Sono brand builder, creator, consulente, formatore e divulgatore di web marketing. Autore del libro "Personal Branding sui Social" (link Amazon).
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