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L’altra sera mentre facevo zapping in TV ho visto casualmente (non odiatemi, giuro che non lo vedo mai!) un pezzetto di Porta a Porta, il talk show di Bruno Vespa.

La puntata era dedicata a quei VIP che hanno deciso in questi anni di raccontare pubblicamente, soprattutto sui social, un tumore, una malattia, un problema di salute più o meno grave, di non nascondere insomma la cosa, mettendo in piazza il loro disagio, dolore ed anche volontà di guarire. Tra i filmati mostrati c’era quello di Fedez, ricoverato in ospedale di recente per l’asportazione di parte del pancreas attaccato da un raro tumore, e tra gli intervistati in studio o collegati via webcam c’era Vittorio Sgarbi e Vittorio Feltri.

Anche loro hanno raccontato il loro disagio, il fatto di aver dovuto affrontare una malattia che li ha debilitati, e della loro scelta di parlarne in pubblico, in tv così come in rete.

Una cosa che mi ha molto colpito di questa loro intervista è stato il fatto che entrambi, al contrario di altri personaggi intervistati che dopo aver raccontato il loro male senza nascondersi hanno dichiarato di aver ricevuto una grande vicinanza ed affetto da parte del pubblico, hanno dichiarato di non aver ricevuto particolari attestati di vicinanza, niente “pacche sulla spalla”, niente “tieni duro”, praticamente nessun incoraggiamento.

Perché mi ha colpito?

No, non mi ha colpito il fatto in sé. D’altronde ho sempre creduto nel messaggio biblico, anche se non sono per niente religioso, contenuto nella frase “chi semina vento raccoglie tempesta”. Sgarbi e Feltri hanno spesso comunicato, con il loro atteggiamento e con i loro contenuti televisivi, giornalistici e online, un forte messaggio di odio ed intolleranza nei confronti di determinate fasce sociali e persone. Insomma, per dire un eufemismo, non si può dire certo che i loro personal brand, al di là dei loro hard-skill di tutto rispetto, abbiano brillato per umanità, sensibilità ed intelligenza emotiva.

Ciò che mi ha colpito e meravigliato è stato invece il fatto… che ne fossero meravigliati!

Ma cosa si aspettavano?

Dopo aver trascorso una vita ed una carriera a seminare vento, potevano mai aspettarsi qualcosa di diverso di una tempesta?

In realtà la tempesta per loro non c’è stata, anzi se ci fosse stata forse dal loro punto di vista sarebbe stato anche meglio visto che probabilmente la loro scelta di parlare pubblicamente della loro malattia è stata finalizzata solo ad avere attenzione. Ed invece non hanno ottenuto neanche quella. In pratica non ne ha parlato nessuno.

Ovviamente non si può dire con certezza che sia andata proprio così, però si può secondo me dire che molto probabilmente il pubblico ha pensato che il loro non fosse un racconto sincero e spontaneo ma, in linea con il loro “trascorso”, anche questa volta strumentale, ed è per questo che li ha ignorati.

D’altronde i messaggi divisivi, spesso carichi di intolleranza verso qualcuno o qualcosa e che tendono a puntare il dito contro un nemico, nascono spessissimo proprio con lo scopo (a volte inconsapevole, altre volte perfettamente lucido e strategico) di attirare solo attenzione.

Feltri in particolare, come direttore di una testata giornalistica, conosce bene la “squallida arte” di creare titoloni provocatori che sono in grado, attirando l’attenzione, di far vendere qualche copia o far visitare qualche pagina web in più.

E Sgarbi, con i suoi modi sempre al limite della rissa, sa bene come mantenere incollata l’audience di un programma televisivo facendo così aumentare il suo “gettone” di presenza.

E allora?

Beh, allora è davvero incredibile come certe persone, continuando anche in tarda età ed in malattia a non “vedersi dentro” ed a non capire l’importanza dell’empatia, dell’ascolto altrui, del rispetto degli altri e delle loro opinioni, pensino addirittura di essere nel giusto, meravigliandosi che il loro “messaggio di aiuto” non venga ascoltato.

Odio usare questo termine ma credo che questi siano inquadrabili come “atteggiamenti fascisti”, quindi per definizione perpetuati sulla base di un background di ignoranza, senza alcuna speranza che possa nascere una riflessione dei motivi, figuriamoci un pentimento, in nome di una qualche “supremazia” che gli è stata probabilmente inculcata da piccoli e che per questo si ritiene ovvia, scontata e naturale sebbene nessuna scienza dica che è così.

Persone che, usando per una carriera ed una vita le parole come armi micidiali, hanno fatto tanto male agli altri, ma che non se ne sono mai rese assolutamente conto, credendo di essere, sempre per via di quella presunta “supremazia” mista a religiosità da “in nomine patris” delle gran brave e buone persone, e per questo meritevoli di una pacca sulla spalla.

Persone che hanno sempre avuto un ego talmente smisurato da non comprendere ed accettare il fatto che il pubblico, e non solo quello televisivo o di un social ma praticamente tutte le persone con cui hanno avuto a che fare, alla fine smette di temerle.

E così finisce che quel pubblico prima o poi rompe quella “paura”, l’unica emozione che li ha tenute insieme, finendo per dare loro ciò che si meritano: l’indifferenza.

Ecco perché non si dovrebbe mai e poi mai usare la paura nelle relazioni interpersonali, di qualsiasi natura, nella vita come nel lavoro, anche perché POI non si può recriminare, non ci si può meravigliare o peggio indignare se si viene lasciati soli.

Certo, siamo umani, non siamo perfetti, ed abbiamo anche tutto il diritto di sbagliare. Ma ci sono sbagli e sbagli: avere per tutta una vita un atteggiamento e una mentalità “suprematista” è quanto di peggio si possa fare non solo nella vita ma anche nel lavoro. Non meravigliamoci se poi ci ritroviamo senza affetti “veri”, senza persone che si preoccupino davvero se stiamo male o abbiamo un problema. 

E, visto che ormai essere empatici non può essere relegato solo alla vita privata, anche senza clienti.


Leo Cascio

Leo Cascio

Sono brand builder, creator, consulente, formatore e divulgatore di web marketing. Autore del libro "Personal Branding sui Social" (link Amazon).
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