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Negli ultimi giorni si è tornato a parlare dell’uso delle parole, in particolare se sia giusto o meno essere politically correct nella comunicazione.

Una forte impennata al dibattito l’hanno data il caso del rapper Fedez che durante l’ultimo concerto del Primo Maggio ha “attaccato” alcuni politici della Lega citando le loro frasi denigratorie contro la comunità lgbt (esempio: “se mio figlio fosse gay lo brucerei nel forno”). Se non sai o non ricordi eccone l’estratto.

Quasi in concomitanza a questo episodio si è aggiunto quello del duo comico Pio e Amedeo che durante un monologo in prima serata su Canale 5 ha rivendicato il “diritto” d’uso della parola “frocio” (e simili) non solo nella comicità/satira, ma anche nella vita comune, perché a loro dire “le intenzioni contano più delle parole”.

Come avviene spesso, complice soprattutto la forte polarizzazione alimentata dagli algoritmi dei social network, l’opinione pubblica si è schierata in modo netto da una parte tra chi rivendica il diritto di dire tutto ciò che si vuole in nome della libertà di espressione (purtroppo offendendo il prossimo, in particolare le minoranze) e dall’altra chi vorrebbe non solo impedire l’uso discriminante del linguaggio ma addirittura spingere per una political correctness di tipo censorio nei confronti di chi non si adegua ad un “pensiero unico”.

Purtroppo è sotto gli occhi di tutti come l’espressione “political correctness” venga usata spesso ed in modo improprio come “etichetta” di uno status da elogiare o da condannare, ignorando le infinite tonalità di grigio e vedendo ciascuna “posizione” come il bene o, all’opposto, il male.

Ed infatti il problema è che molte volte i commenti di chi la cita sui social con un “basta con la political correctness!” o, di contro, con un uso della political correctess pesante e distorto, dimostrano di non conoscerne il vero significato.

Facciamo chiarezza

In questo articolo voglio provare a fare chiarezza spiegando cosa si intende davvero per “political correctness” e perché i brand, ma non solo, dovrebbero prenderlo a modello di stile e comportamento. Ma a patto che, appunto, ne conoscano il vero significato e che lo applichino nel modo corretto.

Per prima cosa interroghiamo Wikipedia che ne da una definizione in inglese:

Political correctness is a term used to describe language, policies, or measures that are intended to avoid offense or disadvantage to members of particular groups in society.

Traducendo deduciamo che essere political correct significa comunicare in modo da non arrecare offesa o danno ai membri di particolari gruppi della società attraverso l’uso del linguaggio, specifiche “policies” e misure.

Mi voglio soffermare sul termine “policies”.

Nel caso di un brand, le policies sono una serie di “regole” che contribuiscono a definire l’identità del brand stesso. Ciò significa che se ad esempio nelle branding policies è evidente un “purpose” ambientale o sociale, si dovrà assolutamente evitare che il brand supporti in alcun modo cause di scopo/valore  contrario.

Per esempio se il mio brand fa capo ad un’azienda che produce o vende energia solare, nelle mie branding policies ci sarà scritto che non potrò sostenere realtà che supportino la produzione di energia da combustibili fossili.

In sostanza quindi nelle branding policies (ma non solo) sono racchiuse le scelte politiche del brand, ovvero lo “scopo valoriale per cui il brand ha ragione di esistere” che, come ricorda Simon Sinek nel suo libro “Partire dal Perché”, è l’essenza del brand stesso ed il primo passo per costruirne l’identità, l’azione e la comunicazione (nell’ordine why, how, what).

Questo che ti ho indicato è un punto essenziale che quando viene compreso invalida il luogo comune più diffuso sul concetto di political correctness: l’idea che i brand non debbano occuparsi di politica.

Di fatto, invece, non è proprio così. I brand possono eccome occuparsene, anzi in realtà devono.

Brand e “politica”

Ma attenzione, perché quando si parla di brand il concetto di politica non è legato ai politici ed ai loro partiti in senso stretto.

“Fare politica” per i brand va inteso in maniera ampia, ovvero non a supporto di forze politiche parlamentari ma come pura e semplice espressione del pensiero riguardo ai temi sociali.

D’altronde tutti noi facciamo politica quando esprimiamo i nostri valori con le nostre parole, perché non dovrebbero farlo anche i brand dal momento che i brand che funzionano sono human-oriented?

Tuttavia ribadisco che essere political correct non significa agire e comunicare schierandosi con o a favore di un Salvini, di un Grillo, di un Renzi o di una Meloni (farlo, oltretutto, sarebbe dannoso visto che innescherebbe flame tra pro e contro che spesso sono tutto tranne che un sano dibattito, ne ho parlato anche in questo vecchio articolo), ma partecipare ai dibattiti sociali raccontando i valori nella propria narrazione (tipicamente inserendoli all’interno del proprio piano editoriale) ed esprimendo un parere in linea con le proprie policies.

E questo deve avvenire difendendo la propria posizione, ma attenzione, evitando di attaccare quella opposta (correctness).

Essere politically correct significa comunicare avendo estrema cura di cosa si dice, di come si dice ed a chi lo si dice, senza lavarsi le mani di fronte ai problemi sociali (fugando così il rischio di apparire opportunisti o ipocriti), ed esprimendosi con equilibrio, evitando di puntare il dito.

Allo stesso tempo portando punti di riflessione nel caso ce ne fosse bisogno e sempre coerentemente con i valori del brand.

D’altronde, facendo una piccola disamina sul tema della comunicazione, basta ricordarsi che questa non può assolutamente trascendere dalla relazione. Banalmente la stessa parola “comunicare” significa “mettere in comune”, ovvero confrontarsi insieme al proprio pubblico esprimendo la propria posizione senza però imporla, tuttavia dando forte identità al brand.

Chiarito il significato vero di “politica correctness”, torniamo discorso di Fedez tanto criticato come “inopportuno”.

Fedez è stato politically correct?

Forse ti starai chiedendo se lui, come brand, abbia esercitato nel modo corretto la sua political correctness. E magari prima di aver letto questo articolo avrai pensato che non lo sia stato affatto perché ha “attaccato” la controparte, dai più indicato come “un nemico di destra” mentre lui viene etichettato come di sinistra.

In realtà se analizziamo quel video RAI e la polemica sulla sua presunta censura con obiettività ci rendiamo conto che Fedez non è e non ha agito da sinistroide o comunista (ne è prova la condotta imprenditoriale, tra l’altro con guadagni a tanti zeri, sua e di sua moglie Chiara Ferragni) e che quindi come tale, sebbene molti abbiano cercato di screditarlo asserendolo, non ha alcun “interesse partitico” (da notare che non ho scritto “politico”) nell’attaccare la Lega.

Questo, al di là di quella che può essere ANCHE un’operazione di marketing, ne certifica chiaramente la buona fede.

Tra l’altro, in linea con la filosofia della political correctness, non ha espresso opinioni ma riportato fatti ovvero frasi dette senza alcuna possibilità di smentita da determinate persone che rivestono ruoli importanti nella macchina governativa italiana, denunciando non solo il fatto in sé (l’attacco ad una minoranza) ma anche una totale noncuranza del concetto di importanza dell’uso violento delle parole.

Certo, lo ha fatto con aggressività (il “tone of voice” del rapper incazzato), ma avviando un dibattito su temi nobili spesso sottovalutati (appunto diritti delle minoranze lgbt ed uso delle parole nella comunicazione).

D’altronde si può immaginare che le branding policies di Fedez (mi riferisco anche alla linea di smalti del suo neo brand) parlino di supportare e difendere quella comunità. Attaccare la controparte ma in quel modo non è un vero attacco, quindi di fatto non ha violato le policies, anzi formalmente le ha rispettate.

Cosa imparare da questa storia?

Detto ciò secondo me la cosa più importante è capire che in questa storia non conta chi ha vinto e chi ha perso ma farne occasione per riflettere porgendoci tutti, me incluso, questa domanda…

I temi sollevati da Fedez sono utili o no per far progredire la nostra società?

Lasciamo perdere i paragoni con altri problemi altrettanto se non più importanti. È ovvio che ci sono problemi ancora più importanti, ma ognuno fa il suo. E lasciamo da parte anche l’approvazione della legge da lui rivendicata.

Ripeto: è utile aver creato questa occasione di riflessione per accrescere la consapevolezza collettiva su questi temi?

Non voglio rispondere, lascio che sia tu a farlo.

Allo stesso modo non voglio esprimere giudizi sul monologo di Pio e Amedeo ma solo riportare una nota a proposito…

Pio e Amedeo hanno parlato di prevalenza in termini di importanza dell’intenzione sul significato nell’uso delle parole. Ecco, questo è un caso ancora più emblematico in cui si denuncia la “political correctness” a favore di una fantomatica violazione della libertà, come fosse in atto l’imposizione di un pensiero unico.

Puoi ascoltare le parole in questo video da Youtube:

Ecco, obiettivamente esiste una corrente di pensiero e di persone che estremizzano/strumentalizzano la political correctness dando l’impressione di imporre un pensiero unico a livello globale, ma anche qui se evitiamo di schierarci a priori ci rendiamo conto che si tratta di un fenomeno di estremizzazione indipendente dal significato di political correcness.

Quella dei fanatici/fraintenditori della political correctness non è political correctness ma fascismo perché chi agisce così non si limita, come dovrebbe, a parlare dei propri valori, ma insulta quelli opposti.

La vera political correctness dei brand, come ho già spiegato, invece non attacca o accusa nessuno ma difendere i propri valori e, meglio ancora, stimola una presa di coscienza e consapevolezza generale su temi socio-politici importanti.

Al massimo fa notare azioni o frasi altrui ma senza giudicarle, semplicemente puntandovi i riflettori e facendo delle domande.

La prova della buona fede della political correctness che nessuno vuole imporre qualcosa ce l’abbiamo, d’altronde, dalla nostra Costituzione ed in generale dalle leggi delle democrazie occidentali che sanciscono la libertà di espressione senza censure.

Ma attenzione perché qui non parliamo di censure, e neanche di presunti tentativi di censura come nel caso Fedez/RAI, ma di responsabilità.

Assumiamoci la responsabilità di ciò che diciamo

Si tratta di assumersi la responsabilità, tutti noi inclusi i brand, non solo di ciò che si fa, ma anche di ciò che si dice perché verissimo che uccidere un omosessuale è più grave rispetto ad insultare un omosessuale, ma la verità è che un omicidio omofobo inizia nella maggior parte dei casi da un insulto omofobo.

Ne deriva una constatazione logica: se ciascuno di noi evitasse di usare (a prescindere dalla volontà di offendere) termini denigratori come “frocio” e “ricchione”, gli omicidi e le offese fisiche alla comunità omosessuale non finirebbero, ma alla lunga si ridurrebbero tantissimo (e sarebbe già un gran risultato).

Non è un parere, ma è la scienza della comunicazione, i dati statistici in nostro possesso e gli studi di psicologia che dimostrano questa cosa. E di fronte a questa evidenza non si dovrebbe rispondere con “sono d’accordo” o “non sono d’accordo” ma semplicemente accettarla e farne tesoro.

Insomma non è questione di parere ma di scelta che si traduce in quest’altra domanda…

Vuoi schierarti da una parte o dall’altra, semplificando il processo di scelta (ovvero, lasciando per comodità – ti evito lo sforzo di riflettere – che “fazioni” scelgano per comodità al posto tuo) o provare a vedere le cose con obiettività, assumendo una consapevolezza di tipo “olistico” (ovvero che tenga conto di tutto) e che faccia comunicare più efficacemente il tuo brand ma senza precluderti la possibilità di esprimere il tuo valori?

Il mondo è così complesso che le parole non possono descriverlo con esattezza.

Per questo non solo non basta “schierarsi” ma non basta neanche usare le stesse parole come le abbiamo sempre usate credendo che vadano sempre bene.

Altro esempio: il termine “tutti” quando ci rivolgiamo ad una platea di uomini e donne andrebbe, magari non sempre ma sicuramente a seconda del contesto, cambiato in “tutti e tutte” o forse cercata un’altra soluzione il più possibile chiara. Sì, lo so che sembra “buonismo” ma se siamo responsabili di ciò che diciamo (brand reputation ti dice qualcosa?) dobbiamo sforzarci di essere chiari ed inclusivi il più possibile e quindi, prima ancora, assicurarci di essere sempre pronti a cambiare, ovvero in un perenne stato di trasformazione.

Di questo ne ha parlato proprio ieri, tra l’altro, Patrick Facciolo, tra i più noti e preparati consulenti e formatori di public speaking, durante questa live che ho moderato. Se hai 45 minuti liberi ti invito a vederla (su questi temi Patrick è un vero gigante).

Concludendo

Detto ciò, dobbiamo avere la pazienza di ponderare le parole il più possibile, di spiegarci meglio anche se questo, come è ovvio, ci costerà più tempo e fatica.

Ma se ci riusciremo, ed in più (importante) daremo l’esempio nelle nostre azioni, riusciremo a non affogare nel mare informativo in cui nuotiamo utilizzando i social.

E, cosa altrettanto importante, grazie ad una saggia political correctness daremo un senso al nostro scopo e a quello del nostro brand.

 


Leo Cascio

Leo Cascio

Sono brand builder, creator, consulente, formatore e divulgatore di web marketing. Autore del libro "Personal Branding sui Social" (link Amazon).
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