(Tempo di lettura 4 minuti)

Dieci giorni fa, per chiudere in bellezza un viaggio di lavoro e piacere a Milano, sono andato al cinema a vedere “La Stranezza”, l’ultimo film di Roberto Andò con protagonisti Toni Servillo ed il duo comico siciliano Ficarra e Picone.

Il film racconta in modo romanzato la genesi della famosa opera di Luigi Pirandello “Sei personaggi in cerca d’autore”. Il noto scrittore siciliano, impersonato da Toni Servillo, si imbatte in un ditta di pompe funebri guidata dalla coppia Ficarra e Picone che oltre a praticare attività di sepoltura nutrono un spiccata passione per il teatro.

Prima di mandarmi al diavolo aspetta: in questo articolo non intendo spoilerarti il film ma esprimere giusto alcune osservazioni.

Intanto te lo raccomando: “La Stranezza” è un film a mio parere raffinato e profondo, anche se non privo di battute divertenti. Un film che ti consiglio di vedere anche perché offre diversi punti di riflessione, se non addirittura lezioni, sull’ambito di comunicazione e marketing che seguo ed amo di più: il personal branding.

Non ho nessuno scopo e sono felice

“Non ho nessuno scopo e sono felice” è una battuta che i personaggi interpretati da Ficarra e Picone cercano, con qualche difficoltà, di insegnare ad un attore amatoriale durante le loro prove in vista di una successiva rappresentazione teatrale.

Questa battuta mi ha colpito per due motivi.

Il primo è senza dubbio il modo in cui viene recitata dallo sconclusionato “attore”: in pratica facendo una breve pausa dopo la parola “nessuno”. Prova tu stesso a leggerla in quel modo, come ci fosse una virgola dopo “nessuno”, e ti renderai conto di quanto è divertente. Ed al cinema ancora di più!

Ecco la mia prima riflessione: usare l’ironia è un ottimo modo di comunicare. Anche se l’argomento è serio, nei modi e nei tempi giusti, l’ironia può fare davvero la differenza tra un contenuto noioso ed uno coinvolgente. Tra un personal branding stancante ed uno godibile.

Il secondo è perché quella battuta è un paradosso.

Come saprai sul mio blog spesso parlo proprio dell’importanza dello “scopo”, o se preferisci il più figo “purpose”, che un’azienda o un individuo (a patto prima di riconoscerlo) può usare per comunicare in modo più efficace. D’altronde “il perché” (di questo stiamo parlando), come ho più volte scritto nel mio blog citando spesso i preziosi studi di Simon Sinek, è ciò che aiuta a realizzare un imprenditore o professionista trasformandolo in un leader.

Una frase come quella sembrerebbe negare questa sacrosanta verità! Tuttavia come accennavo tempo fa in questo altro post, potrebbe valere anche il concetto opposto.

Mi riferisco al lavoro del filosofo Alan Watts e la sua teoria, espressa nella sua opera “Coincidenza degli Opposti”, secondo cui la vita (di cui un percorso di personal branding non è altro che una sua angolatura) non è che un viaggio senza destinazione. Watts sostiene che gli individui sono come canzoni.

E qual è lo scopo di una canzone se non quella solo di suonare? Non di certo quella di finire altrimenti, come dice Watts, i brani durerebbero pochi secondi. Lo scopo di una canzone è la canzone stessa.

Ora con questo non voglio di certo affermare che per fare personal branding lo scopo non serva, anzi voglio rimarcare il contrario: lo scopo serve eccome in quanto necessario a tracciare il MODO in cui si intende operare e comunicare nella propria attività.

Tuttavia non avere uno scopo, ma da intendersi però come obiettivo/destinazione di un viaggio, può essere un concetto comunque valido per mirare alla felicità.

Il concetto risultante da quella bizzarra frase è in sostanza che “vivere solo nel presente” non è sicuramente mai una buona strategia di personal branding.

Tuttavia vale anche il concetto per cui focalizzarsi troppo sul futuro, fissandosi obiettivi spesso irrealizzabili (come ad esempio guadagnare x milioni), può essere altrettanto sbagliato perché ci illude di avvicinarci alla felicità quando in realtà ci allontanano da essa.

Per dirlo in parole ancora più semplici: se per “scopo” intendiamo un “obiettivo” quella battuta, per quanto apparentemente assurda, può essere persino veritiera.

Siamo delle maschere

Sul finale il film offre a mio parere una serie impressionante di spunti di riflessione sul senso di fare personal branding.

Lo stesso personaggio interpretato da Servillo, il grande scrittore siciliano Luigi Pirandello, ha fatto del concetto di personaggio uno dei suoi capisaldi comunicativi. Del rapporto tra Pirandello e personal branding tempo fa ne parlai qui.

Anche in questo caso non voglio farmi odiare spoilerandoti il finale, tuttavia proprio nel finale il film mette in risalto una grande verità a cui non pensiamo mai, e cioè che siamo tutti dei personaggi, per quanto inconsapevoli.

Ebbene il “tema del personaggio” è molto importante nel personal branding in quanto spesso viene indicato come la sua antitesi.

I più seri consulenti e formatori di personal branding ripetono spesso ai loro allievi ed assistiti che fare personal branding è essere se stessi evitando di recitare la parte del personaggio.

Fare personal branding non è recitare una parte

Spesso lo dicono perché è purtroppo pratica assai diffusa: non è raro chi si atteggia online in un modo salvo poi risultare nell’offiline in modo diverso se non addirittura opposto.

Tuttavia Luigi Pirandello nelle sue opere, ed in particolare nel suo romanzo “Sei personaggi in cerca d’autore” richiamato soprattutto dal finale di “La Stranezza”, ci ricorda che per quanto ciascuno di noi si sforzi di non fare il personaggio, sarà comunque un personaggio indossando una maschera.

Ci dice in sostanza che non indossare una maschera è praticamente impossibile. E qui mi viene di aggiungere altre due parole.

Riflessione

Ecco, penso che sia proprio questa piccola grande verità, che è un po’ un segreto di Pulcinella, a giustificare l’idea di poter trascurare o abbandonare la ricerca dell’autenticità, ricerca invece che dovrebbe ispirare e motivare SEMPRE chi vuole fare bene personal branding.

Infatti credo che sebbene l’uomo indossi sempre una maschera, seppur “piccola”, debba comunque sforzarsi di indossarla per valorizzare ciò che è bene valorizzare e nascondere ciò che è bene nascondere.

Lo scrivevo e dicevo in un vecchio post e video in cui paragonavo il personal branding ad un “filtro”. Il video lo trovi qui.

Per filtro intendo un processo che coinvolge la comunicazione consapevole e che consente, banalmente facendo il più classico degli S.W.O.T. in fase di analisi (sì, anche per il personal branding) di mettere in luce i punti di forza e di nascondere i punti di debolezza di ciascuno di noi, agendo appunto come un filtro che lascia passare delle cose bloccandone altre.

E per certi versi anche questo filtro è una maschera, la maschera del personal branding.

Conclusione

Alla luce di ciò, concludendo, forse non dovremmo vergognarci di ammettere che anche chi fa personal branding indossi una – seppur flebile – maschera.

Il punto cruciale è, secondo me, che di per sé non è indossare una maschera il vero male.

Il vero male è indossare una maschera che non agisce come filtro, che non rincorra l’etica e l’utilità per tutti i soggetti coinvolti. E non solo per chi fa personal branding.

(Foto: Vanity Fair)

Leo Cascio

Leo Cascio

Sono brand builder, creator, consulente, formatore e divulgatore di web marketing. Autore del libro "Personal Branding sui Social" (link Amazon).
Che ne pensi del mio articolo? La tua comunicazione aziendale o personale ha bisogno di una mano? CONTATTAMI ORA! :)