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Non puoi non ricordare la famosa battuta dell’attore Mario Brega nel film cult “Bianco, Rosso e Verdone” in cui il suo personaggio fa una puntura ad un’anziana signora (la mitica “Sora Lella”).
Se sei troppo giovane e non hai idea trovi la gag sul tubo, per comodità ti incollo il link qui per vederla:
In buona sostanza questa battuta ricorda che le mani possono essere usate sia per esercitare violenza (mentre dice “po esse fero” chiude il pugno a mo’ di cazzotto) che gentilezza, ad esempio proprio per fare una puntura indolore. O per fare una carezza, aggiungo io.
D’altronde la mano è uno strumento buono o cattivo a seconda di come si usa. Questo è evidente a tutti.
Meno evidente è invece il fatto che anche la “lingua”, ovvero la nostra comunicazione in tutte le sue forme, è anch’essa uno strumento che esercita violenza o gentilezza a seconda di come scegliamo di usarlo. In tal caso però è noto come la maggior parte delle persone tendano a declassarla, sbagliando, come molto meno importante rispetto alle azioni.
Gli studiosi di comunicazione però non sono di questo avviso, e non perché “di parte”: esistono numerosi studi scientifici che accostano gli effetti sul cervello della comunicazione non empatica a quelli della violenza fisica. Uno degli ultimi e probabilmente più efficaci è stato realizzato dalla Fondazione Quarta Onlus di Milano nel campo nelle neuroscienze insieme all’Università ed il Neuroscience Center di Padova con oggetto la misurazione degli effetti della comunicazione sul cervello.
Lo studio ha dimostrato una cosa davvero interessante: una comunicazione poco empatica (prendiamo una frase o un gesto offensivo come ad esempio “sbuffare nervosamente di fronte ad una persona in difficoltà”) attiva le stesse aree del cervello che si attivano quando proviamo dolore fisico.
In particolare, come si legge in questo articolo del Corriere, gli scienziati hanno condotto il test su un campione di 30 persone di entrambi i sessi e di età compresa tra i 19 ed i 33 anni esponendoli ad una situazione “antisociale”. Al termine dell’esperimento hanno osservato variazioni di attivazione cerebrale locale e di connettività funzionale tra aree simili tra loro.
Cioè parliamo di aree del cervello legate sia alla sfera cognitiva che emotiva e motoria.
Questi “network” (come gli scienziati definiscono i “collegamenti sinapsici” tra queste zone) hanno mostrato di attivarsi quando i comportamenti degli altri feriscono la nostra sensibilità e sono gli stessi che si mettono in azione quando si percepisce dolore fisico.
Una riflessione
Con ciò è proprio vero che parole e atteggiamenti ostili possono ferire.
No, non è solo un modo di dire. Sì, potremmo tranquillamente affermare che “lo dice la scienza”.
Certo, ovviamente il dolore fisico per come si manifesta è una cosa, il dolore psicologico è altra cosa e probabilmente non andrebbero comunque paragonati.
Tuttavia, e qui veniamo al messaggio che ne desumo, quando comunichiamo dovremmo tenere conto proprio tanto di quegli studi.
Non a caso ho voluto farci un social post giocando con quella battuta dal film di Verdone. Eccola:
Dal mio Instagram: https://www.instagram.com/p/CfTp6GLKqMY/
Perciò stiamo attenti quando comunichiamo: potremmo ferire qualcuno senza neanche accorgercene!
Non si tratta di disputare e discutere una “gara tra gravità del dolore”. Che poi, anche volendo parlarne, che il dolore fisico sia più grave di quello psicologico (così come le azioni siano più importanti delle parole) credo sia generalmente riconosciuto da tutti (estremizzando: uccidere fisicamente una persona non ha paragoni con il fatto, seppur grave, di “ucciderla a parole”).
Ma ripeto, non è questo il punto.
Il punto è avere consapevolezza di entrambe le cose e comportarci, non solo nelle azioni ma anche nella comunicazione, tenendone conto.
Perché nel caso di una “comunicazione ostile”, anche a fronte di azioni meno ostili (o addirittura per nulla ostili) andiamo incontro comunque a gravi conseguenze: sia sul soggetto “offeso”, sia su di noi (in termini percettivi e reputazionali), sia in termini relazionali.