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Scrollando Instagram mi è passato davanti un meme del Corriere con la classica citazione famosa, nel caso quella del premio Nobel per la letteratura e mio conterraneo Luigi Pirandello. La frase, incorniciata da una grafica pulita, era questa:
Non proprio un pensiero elaborato ed originale, anzi in realtà forse così semplice da cadere nella banalità. Ma solo apparentemente perché di banale in quella frase c’è davvero poco. Che nulla sia più complicato della verità lo penso da anni e provo un misto di piacere e rassegnazione apprendendo che quella frase è stata scritta da un grande come Pirandello.
Così ho indagato le sue origini scoprendola provenire dalla raccolta di novelle “Candelora” del 1914, esattamente dalla novella “La realtà del sogno” (chi vuole può leggerla qui).
In un suo passaggio si legge esattamente:
Pirandello, noto per la sua teoria delle maschere, qui sembra sottolineare l’idea per cui le maschere che indossiamo nella società non siano necessariamente costruite razionalmente a tavolino ma spesso “impalcature inconsce” che ci portano a recitare in modo inconsapevole, portandoci a comportarci in modo diverso rispetto alla nostra vera natura.
Oggi la scienza dice che Pirandello aveva proprio ragione: il cervello umano è soggetto a bias cognitivi a cui spesso non riusciamo a sfuggire pur avendone consapevolezza sul piano razionale. In parole povere sappiamo di avere bias, ne sappiamo parlare, sappiamo riconoscerli magari negli altri, ma stentiamo a vederli in noi stessi, e così finisce che ne siamo, almeno in minima parte, succubi. E non solo. Spesso pretendiamo di essere sicuri, purtroppo a volte con spocchiosa arroganza, che la nostra immagine esteriore sia fedele al 100% alla nostra essenza.
Per la serie: “sono sempre me stesso, eh! Mica sono finto, io!”. Di questa cosa, con le dovute citazioni scientifiche, ne avevo parlato anche in questo articolo in cui faccio un spoiler di un interessantissimo documentario Netflix.
Questo concetto dei bias incontrollabili anche per chi li studia si allaccia moltissimo al mio amato personal branding, la disciplina e branca del marketing di cui mi occupo da anni, e che ha forti collegamenti con la sfera individuale, in particolare con il mondo della psicologia.
Non a caso pur non riguardando propriamente la crescita personale, il personal branding per essere “maneggiato con cura” (diciamo così) richiede un certo livello di consapevolezza.
Cioè, l’ideale per chi lo fa è quello di conoscere se stesso il meglio possibile in modo da tale da comunicare quest’IO all’esterno nel modo più fedele e coerente possibile.
D’altronde come si fa a raccontare qualcosa (cioè se stessi) di cui, in realtà, non si ha prima una chiara (nel senso di più possibile obiettiva) conoscenza? Come si fa a fare personal branding senza riconoscere obiettivamente i propri pregi e soprattutto difetti (tradotto: facendosi tanti bei bagni in quella piscina olimpionica di nome “umiltà”)?
Senza questa consapevolezza il rischio è di usare il personal branding per spingere una narrazione montata, non realistica, e spesso esageratamente virtuosa di sé. Il rischio è quello di fare “ego branding”, non di certo personal branding in modo etico. Il rischio è di pompare un personaggione, una surreale macchietta di se stessi che sì, magari funzionerebbe anche in termini di reach sui social, ma spesso, lasciando a casa quella cosa saggia che si chiama “credibilità”, a che pro?
Tuttavia visto che siamo tutti soggetti alla finzione verso noi stessi, intuizione di Pirandello che come detto trova riscontro nelle neuroscienze, ne conviene che per quanto ci si sforzi a renderlo immune dalla maschera del personaggio, un pochetto personaggio qualsiasi personal brand lo sarà (del rapporto tra personal branding e costruzione di un personaggio ne avevo parlato anche in questo articolo di qualche tempo fa).
Sia chiaro: non è un grosso problema quando quel “pochetto” rimane sotto controllo.
Può diventarlo invece se si è troppo soggetti ai condizionamenti dettati da quell’area del cervello dove i bias trovano terreno fertile, ovvero il sistema rettiliano (amigdala) ed il sistema limbico, sede delle emozioni.
Concludendo
In caso di scarso controllo delle emozioni (ad esempio sbalzi di umore, confusione, attacchi d’ansia, morbosa fame di attenzione o condizioni psicologiche ancor più gravi), probabilmente non si è adatti a fare personal branding in modo etico ed efficace (anzi, secondo me, proprio a fare personal branding!). Meglio in tal caso farsi aiutare da uno psicologo o da una figura analoga che (ad esempio attraverso l’ottima tecnica meditativa della mindfullness) aiuti a ritrovare la gestione delle emozioni.
Se invece i propri bias portano ad una autovalutazione un po’ diversa ma non opposta a quella reale (come accorgersene: è utile controllare e dare il giusto valore ai feedback esterni, soprattutto quelli a carattere reputazione), non c’è nulla di cui troppo preoccuparsi.
In ogni caso una volta ripreso il controllo, se l’intenzione è quella di fare personal branding (e quindi lavorare per raggiungere obiettivi non solo personali ma anche di business), possono sussistere le condizioni per iniziare a godere davvero dei grandi vantaggi della marca personale.