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Ieri ho avuto una vivace chiacchierata con un amico che mi ha interpellato per una consulenza.

In pratica mi ha chiesto di realizzare per la sua attività (purtroppo “senza brand”) un sistema di lead generation (generazione di contatti) con l’obiettivo di vendita di un “bundle”, volgarmente il classico “pacchetto”.

Operando nel terziario, l’idea che mi ha esposto (che per ovvi motivi non dettaglierò!) è di riunire una serie di servizi complementari tra loro ad un prezzo unico e più vantaggioso rispetto al caso in cui si comprassero i servizi singolarmente. E chiaramente di pubblicizzarlo su internet.

Il bundle in effetti è una tecnica di marketing molto diffusa e tendenzialmente efficace perché di solito stimola le vendite. Oltre alla possibilità per gli acquirenti di acquistare solitamente ad un prezzo più vantaggioso, c’è anche il fatto di avvicinarli a prodotti, o nel caso del mio cliente, servizi che probabilmente non acquisterebbero mai o che acquisterebbero da altri fornitori.

Un esempio di bundle

Facciamo un esempio banalissimo.

Un bundle tipico nel turismo consiste nell’offrire il pernottamento in una struttura ricettiva affiancata ad esempio ad altri servizi come la degustazione di prodotti tipici presso aziende convenzionate oppure servizi di noleggio di auto o barche, oppure ancora servizi di transfer ecc.

Nulla di nuovo ed originale, insomma.

D’altronde il bundling è qualcosa di generalmente molto diffuso.

Tutti offrono pacchetti, solo alcuni offrono esperienze: approfittiamone!

Ed è questo il vero problema che deve affrontare chi decide di “pacchettizzare” un insieme di prodotti o servizi complementari: che trattandosi di una pratica molto diffusa non è sempre facile attirare l’attenzione e la curiosità del pubblico.

Spesso i bundle, come molti prodotti d’altronde, si somigliano tutti tra loro. E ciò che si somiglia troppo porta il cliente a vederli “tutti uguali”. E se i bundle risultano uguali e banali sai qual è la conseguenza?

Che il cliente finisce per sceglie per il prezzo!

Se infatti dal punto di vista dell’imprenditore il bundling può sembrare una “genialata” in grado di aumentare le vendite, dal punto di vista del cliente, a meno che il prezzo offerto non sia molto più conveniente rispetto al totale effettivo e più basso rispetto quello dei competitor e che ci guadagni anche bene (francamente difficile, però!), lo sarà molto meno.

Questo concetto è tanto più vero quante più aziende fanno lo stesso, ovvero quanta più concorrenza esiste nel mercato che fa più o meno la stessa cosa. Insomma, è necessario formulare i pacchetti in un certo modo per renderli appetibili e soprattutto diversi, altrimenti il vantaggio che ne deriva utilizzandoli quasi si esaurirà!

Come rendere un pacchetto “diverso” ed “appetibile”?

Per uno come me che vive di pane e branding da una vita la soluzione è stata ovvia: lasciando perdere il “pacchetto” e parlando di “esperienza”.

Ho detto al mio amico che, a meno che questa unicità fosse un prezzo stracciato o generalmente più basso dei competitor, l’unico modo per aumentare le chance di successo dell’operazione (che avrebbe richiesto anche l’acquisto di traffico mirato sui motori e sui social, quindi anche un budget pubblicitario da investire “congruo”) fosse di non formulare un’offerta come pacchetto (che è solo il “fratello maggiore” del prodotto) ma come esperienza.

Purtroppo dopo aver sentito la mia risposta mi ha rivelato di non essere d’accordo, insistendo sul concetto molto “retrò” di pacchetto.

Così ho cercato di convincerlo che si sbagliava: se vorrai seguirmi nella lettura ti spiego come ho cercato di convincerlo. Credo che la spiegazione che gli ho dato possa essere utile anche a te qualora tu sia intenzionato ad attività di marketing simili.

Un mercato orientato all’esperienza

Gli ho spiegato che la soluzione consistente nell’offrire “esperienze” non è un’opinione ma una conseguenza ad una realtà attuale dettata dai fatti, precisamente dal modo in cui oggi funziona il mercato.

Gli ho spiegato che viviamo in un mercato in cui al centro di tutto c’è il cliente, con le sue esigenze, bisogni e problemi, sia inconsapevoli e consapevoli.

Gli ho spiegato che, a differenza di ciò che accadeva fino a qualche decennio fa col “marketing 1.0” teorizzato da Philip Kotler (in cui ci si focalizzava sulla vendita del prodotto) oggi le persone non acquistano più prodotti ma esperienze secondo un principio “olistico” in cui i singoli prodotti o servizi che compongono il bundle non vengono vanno fatti percepire come elementi a se stanti ma come facenti parte di un’unica esperienza a 360 gradi.

Esistono numerosi motivi statistici, psicologici e sociologici che lo provano e che rendono questa soluzione basata sull’esperienza ancora più logica soprattutto se ci si rivolge a clienti non basso-spendenti.

Per motivi di tempo non ho potuto sciolinargli numeri ma fatti incontestabili: ad esempio che la stragrande maggioranza degli utili le aziende la fa con i clienti che ritornano ad acquistare (returning customers) oltre che con nuovi clienti a cui il cliente soddisfatto fa il passaparola.

Basti pensare ad Amazon: questo gigante dell’e-commerce (e non si pensi che è un caso isolato e solo per le aziende miliardarie, questo concetto vale anche per le partite iva!) fa soldi a palate proprio grazie ad una esperienza utente assurda che porta i clienti a tornare costantemente ed a parlarne bene portando altra gente.

Altra prova: come riporta questo articolo, studi statistici rivelano che mediamente ad un’azienda un nuovo cliente costa ben 5 volte di più rispetto ad un vecchio cliente e che portare quel cliente al livello di “spesa” del vecchio cliente gli costa ben 16 volte di più!

Quindi no: impostare una strategia puntando solo al primo ed unico acquisto (bundle inclusi) di solito non è una buona idea.

Infatti quando si crea e si pubblicizza un bundle ad un prezzo ultra-conveniente ed “all inclusive” difficilmente questo riesce a generare utili apprezzabili. Anzi, è già tanto se si riesce ad andare in pareggio.

Come formulare dunque un bundling in modo efficace?

Direi rendendolo una “hook-offer”: in pratica creando un’offerta a basso rischio per il cliente e che funga da esca, cioè che gli serva a “testare” il prodotto.

In questo modo il cliente che gradisce acquisterà poi altro, tipicamente prodotti o servizi con valore commerciale più alto. In questo modo in pratica poi l’azienda genererà utili veri attraverso la tecnica di marketing chiamata cross-selling e soprattutto “up-selling”.

Problemino: per fare upselling ci vuole un brand

Solo che per fare in modo che il cliente si fidi di più non basta offrire una hook-offer col prezzaccio ma un servizio di qualità soprattutto facendo capire che dell’azienda ci si può fidare. Altrimenti col cavolo che il cliente caccerà altri soldi!

Insomma il punto fondamentale a cui spesso non si pensa è che all’azienda o all’individuo che si fa carico di un’operazione di web marketing del genere serve una riconoscibilità chiara e trasparente, oltre che tutta una serie di accorgimenti di comunicazione che trasmettano al cliente, in particolar modo il “contatto freddo” che clicca su un annuncio e si ritrova in una landing-page di contatto, un senso di affidabilità e fiducia.

Tutto ciò è qualcosa che si costruisce anche col tempo, inoltre richiede ulteriori investimenti e risorse oltre a quelli necessari per la semplice campagna di lead generation.

E tutto ciò richiede un botto di lavoro di analisi strategica e di comunicazione da parte di chi farà da “direttore marketing” (nel caso raccontato… IO!).

Ecco perché, a meno non si decida di voler fare la solita guerra del prezzo (sempre che i costi siano così bassi da ricavarne un utile sufficiente a sostenere l’attività) oggi non ha alcun senso più vendere “pacchetti”, anzi farlo può significare fallire nell’attività di marketing.

Semmai per fare upselling, che non è che la conseguenza della fidelizzazione della clientela, occorre investire opportunamente in un marketing ed una comunicazione mirata e strategicamente adeguata. Occorre costruire e perpetuare il proprio brand.

The brand experience

L’unica strada percorribile è vendere esperienze, e questo non vale solo per il bundling ma sempre: il motivo è che offrire esperienze è parte integrande del branding, è mostrare all’esterno la propria anima, quel “qualcosa in più” (spesso intangibile, perché riguarda le emozioni) che convince il cliente a fidarsi e acquistare.

Il brand è l’ingrediente che consente ad una landing costruita per acchiappare contatti interessati ad un “pacchettino” a prezzo scontato di generare clienti che prenotano o comprano prodotti o servizio di valore maggiore, in grado di sostenere economicamente e bene tutta la baracca.

Parliamo di una potenziale clientela che non si beve la qualsiasi, che che oggi è molto esigente e critica. Che acquista spesso con cognizione di causa ma soprattutto emozionalmente, lasciandosi guidare da quei brand che sanno toccare le giuste corde del proprio cuore. Gente però anche severa se si sente presa in giro, e che tende a rilasciare feedback negativi con facilità se si sente “tradita”, cioè se si accorge che ciò che viene promesso non è ciò che ha ricevuto.

Gente a cui non interessa il prezzo per forza più basso, ma che vuole sentirsi considerata, anzi, meglio ancora coccolata.

Tra l’altro l’idea secondo cui al cliente interessi spendere poco è diffusa solo in parte “a ragione” (in effetti il potere d’acquisto negli anni è sempre più calato), tuttavia spesso è solo una scusa che si racconta chi, pur avendone le caratteristiche, decide di non fa branding.

E questo “monito” vale specie per quelle aziende che più delle altre dovrebbero farle: quelle che non offrono roba low-cost: se non fosse chiaro scrivo senza mezzi termini che chi non fa low-cost deve ASSOLUTAMENTE investire nel branding.

Concludendo

Insomma tutto sta all’azienda (incluso chi fa personal branding, eh!) e alla sua responsabilità. Sta alle sue scelte.

Se decide convintamente di fare branding (ed è in questo che risiede la sfida da affrontare per chi vuol fare marketing in modo efficace), farà in modo che diventi il segreto del suo (più probabile, anche se non affatto scontato) successo. Diversamente sarà tutto molto più difficile ed ad alto rischio di flop.

Chissà se, dopo avergli spiegato tutto queste cose il mio amico accetterà di investire nel marketing e nel branding, convincendosi soprattutto della validità della necessità di vendere esperienze. Ovviamente me lo auguro!

Perché oggi fare branding, sia a detta dei maggiori esperti mondiali che per la storia delle grandi .com che fanno miliardi proprio grazie alla forza dei loro brand, è davvero l’unica strada logica e percorribile, anche per le micro-aziende e gli individui, per vendere online generando un utile come minimo dignitoso.

E tu che ne pensi?

Secondo te sono stato abbastanza chiaro o avrei potuto spiegargli l’importanza di avere una visione di marketing orientata al branding e alle esperienze in modo migliore?

Tu cosa gli avresti detto?

(Foto: Pexels)

Leo Cascio

Leo Cascio

Sono brand builder, creator, consulente, formatore e divulgatore di web marketing. Autore del libro "Personal Branding sui Social" (link Amazon).
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