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Ti racconto questa storia realmente accadutami molto di recente.

L’altro giorno, visto che ne ho urgente bisogno, un parente mi gira il contatto di una ditta che fa manutenzione a climatizzatori e lavori idraulici.  Li chiamo e due operai si presentano facendo velocemente ed alla perfezione il lavoro concordato.

Finito il lavoro mi appresto soddisfatto a pagarli ma mi rispondono di rivolgermi “alla ditta”, andandoci fisicamente. Così li saluto e vanno via.

Mi reco presso la sede della ditta e manco il tempo di salutarli mi sbattono sul tavolo un documento non fiscale con il conto da pagare.

L’occhietto, come puoi immaginare, finisce sul totale. Ma non è una bella sensazione: è il doppio di quanto mi aspettassi.

Vero che sono rimasto soddisfatto del lavoro, ma il prezzo mi sembra, francamente, fuori mercato.

Ma come ripeto sempre nelle mie consulenze e lezioni di branding e personal branding, so bene che il problema non è per forza prezzo. Già, perché se un lavoro, di qualsiasi natura, viene fatto bene, insomma se “il prodotto” è buono, merita di essere pagato anche di più della media.

Ed a volte anche molto di più!

D’altronde quella di poter mantenere un pricing alto è uno dei vantaggi del fare branding, l’attività di comunicazione che, valorizzando l’azienda, fa passare il prezzo alto in secondo piano rispetto ad altro, come appunto il prodotto ed il servizio.

Così ascolto la loro “spiegazione” fiducioso nel loro branding. Mi aspetto cioè che la loro comunicazione sia esaustiva, empatica ed esauriente, in grado di giustificare quel prezzo così alto.

Comunque, avendomi mostrato immediatamente il totale (chi sa vendere direbbe “grave errore!”), gli dico subito che mi aspettavo di meno. Ma lo faccio non per avere lo sconto, ma giusto per dargli un feedback, aspettandomi appunto una convincente spiegazione.

Purtroppo però non arriva alcuna spiegazione, anzi fraintendono le mie parole borbottano qualcosa di indecifrabile. E poi arrotondano, col classico gesto in cui si barra a penna il totale, la cifra al ribasso di appena il 9%, mostrando totalmente di non aver capito che quel che mi aspettavo non era uno sconto (ottenendone tra l’altro uno insignificante) ma proprio quel “valore aggiunto” (per dire: un servizio clienti particolarmente curato, determinate garanzie o un’alta qualità dei ricambi…) che giustificasse un prezzo così alto. Ciò che mi aspettavo, ma non pervenuta, era una giustificazione credibile.

Ad ogni modo senza fiatare apro il portafogli, afferro il bancomat accingendomi a pagare e qui continua il problema. Anzi, i problemi.

Alla mia richiesta di fattura mi viene detto che una delle voci nel documento non è fatturabile per “questioni burocratiche ed amministrative” (in pratica mi fanno una supercazzola che “Amici Miei Atto Secondo” scansate proprio!).

E giusto il tempo di curvare di appena 10 gradi il mio sopracciglio sinistro, la ditta aggiunge che, per avere fattura devo inoltre (parole testuali) “fornirgli i miei documenti” ovvero documento di identità, codice fiscale e visura attestate la partita iva. E me lo dicono con pure con spocchia, come se fosse ovvio, facendomi sentire la palpabile sensazione di essere preso per i fondelli.

Ovviamente replico che le informazioni necessarie per intestare una fattura sono pubblicamente disponibili, mica bisogna presentare i documenti. Basta comunicare ragione sociale, partita iva, codice fiscale, indirizzo sede legale e PEC per la fattura elettronica. Stop!

Così, con gesto un po’ provocatorio afferro scheda sanitaria e carta di identità e glieli sbatto sul bancone chiedendo però, a questo punto, di farmi firmare la relativa liberatoria all’uso di quei documenti secondo la normativa GDPR sulla privacy e bla bla bla (insomma sfoderando il più classico dei “lei non sa chi sono io” ma con classe!).

Mi guardano come Titty guarderebbe Silvestro, solo che al posto del gatto ci sono io: “oh oh, mi è semblato di vedere una pelsona infolmata!”.

Infatti mi passano foglietto e penna borbottando “sì, ok, certo, mi scriva i suoi dati qui”.

Glieli scrivo pensando, ingenuamente, di poter avere finalmente la fattura e di poterla pagare a vista subito col bancomat (essendo la cifra ben più alta di quanto mi aspettassi non avevo abbastanza contanti) ma…

(sì, non finisce ancora qui!)

…mi rispondono ciò che scommetto hai già intuito:

“No, non abbiamo il POS noi, qui niente bancomat, solo contanti. Le manderemo la fattura per e-mail e potrà fare il bonifico della parte fatturabile”.

Con il briciolo di pazienza che mi resta ricordo loro che anche in questo caso rischiano sanzioni altissime (se non lo sai, ma non credo tu sia così disinformato, sono previste multe salate per chi non ha un POS e ancora più salate per chi non tratta i dati sensibili – ed i documenti personali lo sono – senza rispettare la normativa GDPR).

Gli pago cash, come acconto, la parte non fatturabile (ma ho la ricevuta come “prova” che, guarda caso, ho dovuto chiedere esplicitamente) e finalmente vado via.

Ovviamente quando la riceverò pagherò la fattura col bonifico (perché sono una persona seria, io!). E chiaramente pretenderò che anche la parte cash sia fatturata.

Intanto riecheggia nella mia testa, come forse immagini, un sacrosanto “a mai più!”.

Il mio commento da consulente di branding

Quella che ti ho raccontato sembra una scena inventata di un film di Ficarra e Picone ma è verissima. Ed è il classico caso in cui un’azienda pur avendo un buon prodotto (nulla da dire sugli operai: puntuali, precisi, veloci e puliti!), trascura totalmente il resto rendendosi estremamente antipatica (per non dire odiosa) agli occhi dei clienti.

E così facendo li perde. Irrimediabilmente. Autodistruggendosi.

Come ho anticipato il motivo per cui ciò accade non è il prezzo molto più alto della media ma proprio il modo poco trasparente in cui agisce e comunica. Nella storia che ti ho raccontato persino illegale.

Denunciare tutto questo alla GdF e al Garante? Non vi nascondo che ci sto pensando. Credo che, viste le violazioni previste soprattutto in ambito privacy (che arrivano anche a diversi milioni di euro), chiuderebbero. L’unica cosa che mi frena è che gli operai, che sono dipendenti, perderebbero il lavoro. Per loro mi dispiacerebbe.

Ma non voglio che questo post sia una minaccia. Di fatto non lo è.

Il messaggio vero è questa mia riflessione

Voglio scrivere qualche riga con le mie riflessioni su questa storia perché credo possa essere utile a molti.

Secondo me il nocciolo della questione è che certi imprenditori dovrebbero sapere e capire che comportarsi in modo etico e rispettoso delle leggi non è un piacere che si fa allo Stato, ma al cliente e, chiaramente, a se stessi.

Secondo me la vera causa della mancanza di trasparenza e legalità nel mondo del lavoro è proprio il fatto che certi imprenditori (e purtroppo dove vivo sono davvero tantissimi!) vedono “il mettersi in regola” come un sacrificio/costo quanto invece è un investimento.

Non sanno e non capiscono che agire e comunicare in modo onesto e trasparente non è solo un investimento in direzione dell’ottimizzazione dei processi aziendali (il GDPR non è solo una bega burocratica, è un’opportunità per essere più organizzati e produttivi), ma anche in direzione della comunicazione, del “fare branding” e farlo bene.

L’onestà: un investimento che migliora la reputazione dell’azienda

Cos’è che rende memorabile, nel senso positivo del termine, un’azienda? Un prodotto? Certo, ma in parte!

In realtà sono le idee e gli ideali a rendere memorabile qualcosa o qualcuno. D’altronde quella santa donna della scrittrice Maya Angelou (che amo sempre citare!) scriveva che:

Le persone non ricordano quello che hai fatto per loro ma ricordano come le hai fatte sentire.

Gli imprenditori dovrebbero sapere e capire che non è il prezzo alto a frenare il cliente dal tornare, perché il cliente tornerà lo stesso se è rimasto contento.

E questo vale fino all’ultimo step della famosa “customer journey”, il percorso che di solito inizia prima ancora del contatto, al passaparola, e termina al momento del pagamento. Anche se, se si è bravi a fare branding, in realtà non termina mai perché ricomincia da capo innescando un ciclo infinito!

E se pensi che questo non serva a molto forse non sai che la maggior parte del fatturato dei brand di successo deriva dai “recurring customer”, i clienti che tornare a comprare perché soddisfatti.

Pensa ad Amazon. Ecco, forse è chiaro, cosa intendo.

Ma c’è di più (e di peggio per chi non lo fa)

Quando si distrugge l’idea positiva che il cliente ha del prodotto lasciandogli una “percezione di M”, tutto ciò si traduce non solo in un “a mai più!” (quindi addio cliente di ritorno!) ma anche in un passaparola negativo (gente che, insoddisfatta, racconta la pessima esperienza, spingendo altre persone a stare alla larga, innescando una “viralità negativà” che danneggia l’azienda).

Tutto questo porta col tempo ad un calo di clientela e di fatturato significativo per l’azienda.

Concludendo l’azienda che chiede più della media deve assolutamente giustificare il prezzo più alto. Ne è proprio obbligata. E c’è un solo modo per riuscirci: imparare a comunicare in modo etico e trasparente. In modo onesto. Per cominciare con i suoi clienti dentro i suoi locali commerciali.

Ricorda che non basta un buon prodotto. Devi curare tutta l’esperienza, dal primo all’ultimo momento. E devi fare in modo che il cliente sia soddisfatto, a maggior ragione se ha pagato tanto.

(Foto: Pexels)

Leo Cascio

Leo Cascio

Sono brand builder, creator, consulente, formatore e divulgatore di web marketing. Autore del libro "Personal Branding sui Social" (link Amazon).
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